Una strana abat-jour
Pioggia a catinelle in una ventosa giornata autunnale.
Mademoiselle Morant la sente battere sul vetro.
Si affaccia alla finestra ed ecco il traffico lento, i ciclisti avvolti negli impermeabili, i sottili rami degli alberi rivolti all’insù. Le foglie ingialliscono e cadono sparpagliandosi sul marciapiede. Di tanto in tanto un bambino si china a raccoglierle, incollandosele sulle mani.
La fantasia dei più piccoli è una cosa meravigliosa.
Lo pensa davvero Mademoiselle Morant che sta raccogliendo idee per il nuovo romanzo, una storia a metà tra il fantasy e lo storico ambientata a Parigi. Sembra facile quando si è già pubblicato un libro di successo. Ma in realtà non lo è.
La casa editrice le ha dato una scadenza precisa, il contratto parla chiaro. Un’autrice di successo deve battere il ferro finché è caldo. Naturalmente l’editore le ha messo a disposizione un team per raccogliere idee e fare ricerche, e anche illustratori per solleticare la fantasia, tuttavia lei non vuole servirsi né degli uni né degli altri. Ritiene che la creatività sia un dono.
Scrivere è una passione e tale deve rimanere.
L’editore si accontenta di ricevere gli aggiornamenti mensili.
In quanto a idee, Mademoiselle ne ha già avute diverse.
Il secondo romanzo, lo sa, è più difficile del primo, soprattutto quando la storia è un prosieguo. No, non vuole definirla una saga. Non la solletica granché l’idea di scrivere per il cinema, per il momento rispedisce le richieste al mittente. Il motivo è semplice: vuole concentrarsi solo sulla scrittura.
Lo scrittoio in mogano bianco è colmo di fogli stampati.
C’è anche un manoscritto, un abbozzo di trama preparato un paio di settimane prima.
Lo modifica spesso, aggiungendo di volta in volta qualcosa, cancellando idee per suggerirne altre.
Nel processo creativo anche il pesce rosso ha il suo ruolo. Non a caso Mademoiselle ha messo la boccia di vetro nell’unico spazio vuoto della libreria, a pochi passi dallo scrittoio.
Le piace vederlo sguazzare nell’acqua, affacciando il muso al vetro con occhi sgranati quando si avvicina a mostrargli il manoscritto.
Nonostante il successo Françoise è rimasta coi piedi per terra. È l’unico modo per fare le cose per bene.
Lo deve a sé stessa e ai suoi lettori anche se questi ultimi non sanno chi sia per davvero.
Ha deciso di pubblicare sotto mentite spoglie, di non mostrarsi al pubblico.
Nessuna immagine dell’autrice sulla quarta di copertina, solo qualche accenno ai suoi lavori.
L’editore ha accettato con fatica questa decisione bizzarra. In fin dei conti ciò che conta è il prodotto che piace e vende anche senza il volto dell’autrice.
Françoise si sta godendo una tazza di cioccolata calda quando Mathieu, il custode del palazzo, le annuncia una visita.
Mademoiselle inarca il sopracciglio e da un’occhiata all’agenda: non ha appuntamenti.
“Madame Lestrade richiede i suoi servigi. Mi ha detto di dirle così, testuali parole.”
Quel modo di parlare un po’ antiquato le strappa un sorriso.
“La faccia salire. Grazie.”
Un paio di minuti più tardi l’ascensore arriva al piano. Dalla stretta cabina esce una donna un po’ attempata e tutta ingioiellata avvolta in un lungo cappotto blu in lana, rigorosamente cucito a mano.
Mademoiselle Morant la osserva dalla porta.
“Bonjour Madame…”
“Lestrade”, completa la signora con voce baritonale. “Cerco Mademoiselle Morant.”
“Sono io.”
“Oh, è un piacere conoscerla e la prego di scusare la mia impertinenza, ma proprio non ce la faccio più.
Mi presento qui perché, vede, questo bigliettino comparso come per magia, mi ha messa al corrente della sua esistenza.”, e ciò detto glielo mostra.
Mademoiselle Morant
32, Boulevard Saint-Germain
Mademoiselle gli da una rapida occhiata e sorride, riconoscendo il solito cartiglio impresso su carta avorio, l’inchiostro asciutto, la tipica calligrafia in corsivo dalla quale si deduce una mano mancina, avvezza all’uso di penne stilografiche. Ecco un altro caso buffo da sbrogliare, pensa Mademoiselle Morant sovrappensiero per poi tornare in sé perché Madame sta aspettando che la faccia entrare e sarebbe scortese lasciarla attendere sulla soglia.
“Madame Lestrade, lei è benvenuta.”, accompagna queste parole con un cenno e richiude la porta alle spalle.
“Scusi il disordine.”, dice, anticipandola lungo il corridoio alla cui parete sulla destra è appoggiata una bicicletta rossa.
“Si figuri. A proposito, cara, devo proprio riconoscere che ha buon gusto. È molto raffinato quel fiocco in raso con la camelia bianca che porta tra i capelli.”
“Grazie.”, risponde Mademoiselle. “Eccoci qui, si accomodi pure dove vuole.”
Il soggiorno offre un’ampia scelta si sedute.
Madame Lestrade sceglie la poltrona gialla, un po’ a destra rispetto allo scrittoio.
Mentre si siede, Françoise nota come ogni cosa di quella donna faccia volume: i capelli biondi freschi di permanente, le sopracciglia importanti, le gote rossastre come mele.
Madame Lestrade porta i suoi anni con orgoglio e non perde occasione di far sentire la sua voce baritonale.
“Che bel pesce rosso, sta proprio bene lì tra i libri.”, commenta Madame guardandosi intorno.
“Qui mi sento un po’ a casa mia. Merito della sua accoglienza e del gusto classico per gli arredi.”, aggiunge indicando lo scrittoio. “Cosa rara al giorno d’oggi per una giovane. Complimenti.”
“Grazie. A quanto vedo è qui perché qualcosa la preoccupa molto.”
“Da cosa lo capisce, cara?”
Mademoiselle sorride. “Da come tiene il suo corpo, dal modo di parlare. È accaduto qualcosa che condiziona le sue giornate.”
“E può ben dirlo. Vede, cara”, questo appellativo strappa un sorriso a Mademoiselle, “è una questione un po’ particolare quella che mi porta qui da lei. È una questione notturna.”, completa Madame distendendosi verso Mademoiselle che non è sicura d’aver capito bene.
“Una questione notturna?”
“Sì, cara. E le dico fin da ora che l’espressione d’incredulità dipinta sul suo volto liscio da giovane virgulto è la stessa che mi ha accompagnata questa notte quando l’abatjour, che da sempre tengo sul comodino accanto al letto, e precisamente sul lato destro del guanciale, ha inscenato un concerto degno del maestro Muti… Segue l’opera, cara?”.
A quella domanda rivolta all’improvviso Mademoiselle sorride. Madame Lestrade è la cliente più stravagante che si sia mai presentata alla sua porta.
“L’opera… sì, mi piace, ma… prego continui.”, dice Françoise incuriosita dalla faccenda.
“Sì, ero arrivata al concerto del maestro Muti che ho ingiustamente paragonato al cicaleccio dell’abatjour.
Il maestro dirige meglio, naturalmente…”
Mademoiselle la guarda con espressione buffa, poiché Madame Lestrade ha evidenti problemi a mantenere la concentrazione; si chiede quale incubo dovesse essere stata a scuola, quarant’anni prima.
“Dunque, le dicevo, l’abatjour ha continuato ad accendersi e spegnersi per tutta la notte fino all’alba. Una vera nenia, guardi, non sono riuscita a dormire. E poi è uscito questo biglietto che mi ha condotta da lei. Mi può aiutare, vero?”
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Dinanzi a queste parole melodiose pronunciate con tutte le note possibili della sua voce portentosa, mademoiselle Morant rimane impietrita.
“Cara signora, mi dispiace che questo le abbia tolto il sonno…”
“E mi avrebbe tolto anche il respiro se non avessi fatto ricorso al Ventolin che tengo nel comodino.”
Madame Lestrade è un fiume in piena, racconta ogni cosa con precisione. La mattina successiva dopo la prima notte insonne ha chiamato l’elettricista. È uscito, ha controllato la lampada e non vi ha trovato nulla di strano perché per davvero era tutto a posto.
Tutto è filato liscio per il resto della giornata finché al calar della notte la lampada ha ripreso il concerto intonando, per la prima volta, una filastrocca.
“Una filastrocca?”
“Sì, cara. Incredibile, ma è proprio così. Una cantilena che pare uscita da…”
“E si è ripetuta anche la notte successiva?”
“Sì, ogni notte, cara. Mi da il tormento. Pare un disco rotto. Almeno fosse Madonna ballerei un po’, e invece... La melodia ha un che di antico, di vissuto. Non è Vogue e nemmeno Like a Virgin.”
Françoise scoppia a ridere.
“Va bene, Madame. Questa faccenda ha destato la mia curiosità. A questo punto vorrei dare una controllata di persona.”
“Oh, cara, mai parole più soavi sono giunte alle mie orecchie i cui muscoli auricolari, ne sono certa, hanno esultato all’udir ciò… Insomma, lei mi onora della sua presenza.”
“Farò di tutto per risolvere questo mistero di modo che possa tornare a dormire.”
“Che il ciel l’assista, cara. Può venire quando vuole. Le riserverò un’accoglienza papale”.
Mademoiselle Morant prende taccuino e stilografica.
Madame le snocciola l’indirizzo completo e il recapito telefonico, “per qualsiasi evenienza, cara.”
Fissano l’incontro per quella sera stessa.
L’aria è fresca e intrisa d’umidità. La pioggia delle ore passate sgocciola ancora dai rami degli alberi e dai tetti dei palazzi. È serata di cinema, letture piacevoli, giochi di società. Café e ristoranti sono pieni.
Un taxi si ferma davanti al civico 58 di Boulevard Haussmann. Françoise scende dalla vettura e da un’occhiata al palazzo signorile. Si annuncia al campanello e in men che non si dica arriva alla porta di Madame che l’accoglie in una raffinata vestaglia in raso color rosa antico.
Mademoiselle muove i primi passi nel meraviglioso appartamento. I muri sono imponenti e dalla strada arrivano pochi rumori. Gli autobus a quell’ora sono meno frequenti, le voci dei passanti si spengono dietro le robuste vetrate.
Lo sguardo di Françoise indugia sul disegno del parquet Versailles e sui tappeti prestigiosi che in parte lo ricoprono.
Mentre Madame Lestrade le propone ogni sorta di accomodamento, bevande e spuntini, Mademoiselle Morant prende posto su una poltrona classica in velluto verde scuro. Madame fa lo stesso scegliendo il lungo divano in pelle lì accanto. Mademoiselle si guarda intorno mentre sorseggia il bicchiere d’acqua offertole dalla padrona di casa.
Indubbiamente la signora ha gran classe.
Nel soggiorno trovano spazio, oltre a poltrone e un paio di divani, un tavolo da sei costruito in legno massiccio e sedute della stessa fattezza. È una stanza profonda.
L’occhio di mademoiselle cade sui dipinti paesaggistici realizzati da artisti di fama locale, sul meraviglioso cucù proveniente dalla foresta nera, e un pianoforte a coda Steinway.
Infine, il suo pezzo preferito: incastonata nel muro interno, una libreria intagliata in mogano. Il mobile è un portento, i numerosi volumi disposti in ordine lo rendono unico. Anche nella lettura Madame ha buon gusto. Finemente rilegate, opere filosofiche si mescolano a grandi classici. L’enciclopedia di Voltaire riposa accanto agli scritti di Rousseau in un postumo abbraccio.
Non possono mancare Cartesio e i filosofi greci, Platone e Aristotele. Ci sono molti libri di storia, per lo più francese, atlanti e biografie. Infine la letteratura, con tra gli altri, Hugo, Dumas e Dickens.
“Le piace leggere, cara?”, domanda Madame mentre osserva compiaciuta l’espressione estasiata sul volto di mademoiselle.
“Oh sì, molto.”
“Ha studiato lettere all’università?”
“Sì, mi sono laureata in letteratura alla Sorbonne, cinque anni fa.”, dice mademoiselle con orgoglio.
Dopo averle fatto i complimenti per la casa chiede di vedere l’abat-jour.
Madame acconsente con gioia, rinvigorita dalla presenza di qualcuno - poiché vive sola in quel magnifico appartamento - che vuole occuparsi davvero di quello strano oggetto che da qualche notte a quella parte le da il tormento.
Madame l’accompagna in camera da letto dove un baldacchino si erge al centro. La stanza è ammobiliata con un grande comò sul cui ripiano un vecchio specchio bordato in ottone riflette tutto quel che accade e da sempre veglia sulle notti di Madame Lestrade.
“È un vecchio mobile di famiglia.”, spiega quest’ultima.
“È meraviglioso.”, commenta mademoiselle, osservando le dorature e gli intarsi lungo i cassetti.
Ogni cosa in quella casa pare appartenere al passato. Ogni oggetto è un pezzo d’antiquariato in perfetta sintonia con la personalità di Madame, come se il tempo non fosse mai passato. Lo stesso vale per l’abat-jour in legno di noce appoggiata al comodino a destra del guanciale, proprio come Madame aveva raccontato.
È una comune lampada, semplice se paragonata al resto dell’arredo. La rende allegra la tonalità calda del color crema e il disegno delle farfalle di mille colori.
Mademoiselle si avvicina e guarda l’orologio.
È mezzanotte meno cinque. Tira il cordino, la lampada si accende. La luce esce calda e sicura.
Nulla fa presagire un concerto notturno come quello che Madame ha raccontato.
Mademoiselle tira di nuovo il cordino e la lampada si spegne. L’elettricista aveva ragione: l’abat-jour funziona e Madame gliene da conferma.
Di giorno non ha mai creato problemi, è da mezzanotte all’alba che si scatena il finimondo.
Mancano pochi minuti ormai. Madame attende seduta sul baldacchino, a pochi passi mademoiselle preferisce restare in piedi.
Françoise da un’occhiata al suo orologio da polso.
Alle 23.59 il volto di madame Lestrade è teso nella speranza di non far brutta figura poiché, se per qualsivoglia motivo il concertino del maestro Muti - come ormai le piace chiamarlo - non dovesse ripetersi, ella perderebbe di credibilità davanti alla persona che, sola, le ha prestato ascolto.
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A mezzanotte in punto il cucù parte coi suoi allegri rintocchi e nel momento in cui batte l’ultimo l’abat-jour si accende all’improvviso, come animata da una forza invisibile. Allora l’oggetto cicaleccia per quattro volte accompagnando un suono che ricorda quello di un tamburo, e un due tre quattro tipico del direttore d’orchestra che da l’attacco: musica maestro!
La melodia esce come per magia poiché non ci sono altoparlanti né grammofoni.
Note giocose si spandono per la stanza librandosi e vagando fin nel soggiorno.
Madame Lestrade e mademoiselle Morant si guardano, nei loro occhi la stessa luce, lo stesso sguardo d’intesa. Odono la stessa melodia.
Somiglia più a un Mozart che a un Beethoven, ed ecco quella melodia arricchirsi ora di un coro di voci, dolci e infantili, voci innocenti e al contempo birichine che cantano insieme:
Oh oh oh, di notti incantate
Oh oh oh, quante risate
Te le ricordi ancoraaaa
Non è passata neanche mezz’ora!
Oh oh oh, di notti incantate
Oh oh oh, d’inverno le nevicate
Te le ricordi ancoraaaa
Le avevamo tanto sognate!
La melodia continua ancora per qualche istante ed ecco: tac, tac, tac!: l’abat-jour si spegne e si riaccende di nuovo per poi spegnersi ancora.
Trenta lunghi secondi di assoluto silenzio tanto che Mademoiselle spera sia finita lì quando - oh no, madame aveva proprio ragione! - la tiritera ricomincia daccapo, tra il disappunto di Madame Lestrade, che si mette le mani nei capelli, e di Mademoiselle che recupera penna e taccuino dalla borsa e segna ogni parola della filastrocca che si ripete ogni volta uguale, come un’eterna nenia.
Qualche minuto dopo, mentre l’abat-jour continua nel suo sciorinamento, madame e mademoiselle tornano in soggiorno chiudendo la porta della camera alle spalle per attutire quel suono che dapprima birichino è ormai diventato fastidioso, proprio per il suo continuo ripetersi.
Mademoiselle non commenta quanto sta accadendo nella camera da letto di madame Lestrade.
Il suo mestiere è risolvere misteri buffi, per questo non ci sono orari.
Pertanto comincia a indagare, ponendo a madame domande semplici sulla storia dell’abatjour.
Madame Lestrade è una donna stanca. In lacrime racconta la storia della lampada regalatale, per un suo compleanno di tanti anni prima, dall’amata sorella maggiore, da poco passata a miglior vita.
“Quando nacque sua sorella?”
“Oh, molti anni fa.”
“Si ricorda il giorno?”
“L’8 novembre.”, risponde madame asciugandosi le lacrime.
A queste parole mademoiselle pare avere una rivelazione, vede una luce farsi strada in quel mistero.
Per un momento le pare di essere all’interno di un racconto di fantasmi, tipico di Dickens.
No, non può essere. I fantasmi non esistono, così come gli oggetti non hanno un’anima, nonostante ciò che le grandi campagne pubblicitarie vogliono far credere al pubblico.
Madame si accorge del mutamento d’espressione in Mademoiselle.
“Ha scoperto qualcosa?”, domanda speranzosa.
“No, nulla.”, risponde Françoise, consapevole che la soluzione più rapida è anche quella meno attuabile.
Liberarsi dell’abat-jour sarebbe la miglior cosa; madame Lestrade non è dello stesso avviso.
“Vede, cara, mia sorella Pauline l’aveva costruita con le sue mani. Era un’artigiana. Per questo motivo non voglio liberarmene.”
A quelle parole mademoiselle Morant sorride e chiede, per curiosità, dove si trovasse il laboratorio della sorella.
“A Montmartre. Nel cortile di un palazzo in Rue du Mont Cenis.”
“Si ricorda anche il numero civico?”
“I numeri civici per me sono sempre stati un mistero, ma vediamo… Proprio lì accanto, su strada, c’era e c’è ancora la galleria di un pittore… No, il civico proprio non me lo ricordo.”
“Fa lo stesso, madame.”
Proprio in quel momento il cucù rintocca la mezzanotte e trenta mentre in sottofondo si ode il canto.
Mademoiselle Morant si alza.
“Quanto le devo per il disturbo?”
“Niente, signora.”
A queste parole Madame fa per obiettare, mademoiselle la previene: “Non accetterò denaro finché non avrò trovato una soluzione. Per questa sera abbiamo finito, la lascerò riposare.”
Madame annuisce e l’accompagna alla porta.
“Non dimenticherò il suo aiuto, mademoiselle Morant.”
Nei giorni successivi Françoise si dedica alla stesura del romanzo. Nuove idee, nuovi sviluppi emergono sulla superficie del pensiero. La penna di mademoiselle scorre agile e veloce, in men che non si dica aggiunge nuovi capitoli ai primi.
Tuttavia mademoiselle sa bene come anche nelle migliori delle giornate sia buona cosa di tanto in tanto fare una pausa.
Mademoiselle prende sciarpa e cappotto, al posto della borsa uno zaino elegante in cui ripone penna e taccuino.
La bicicletta rossa è appoggiata alla parete, a pochi passi dalla porta.
Un paio di minuti più tardi saluta il custode e, inforcata la bici, si avvia per i boulevard parigini, in direzione nord.
È metà pomeriggio, un timido sole si affaccia tra le nuvole.
Nel Boulevard Saint Germain c’è il solito via vai di persone e veicoli di ogni genere.
Mademoiselle imbocca la corsia riservata alle biciclette e ai mezzi pubblici. Dopo pochi minuti svolta a destra su Pont Neuf, lasciandosi alle spalle il traffico del Quai. Non perde occasione di passarci quando può. I copertoni bianchi si muovono veloci sull’asfalto grigio scuro. I marciapiedi larghi, i lampioni spenti, i balconi sui quali sostano i parigini per concedersi una pausa, per riflettere, per sorridere dinanzi alla vista del fiume che scorre basso tra i monumenti.
Françoise apprezza la parte più antica della città che la fa immergere nella storia. Non è cambiata poi molto negli ultimi duecento anni.
L’architettura elegante riporta ai tempi della grandeur, dei re, a quella monarchia i cui gigli risplendevano sulle vesti damascate.
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Mademoiselle Morant arriva a bordo della sua bici sulla rive droite, accosta il palazzo del Louvre e si dirige a Les Halles, crocevia di oggi e di ieri.
Erba e cemento, un’area pensata per far sgambare i cani il cui recinto è troppo basso per quelli di grossa taglia, una fontanella, panchine e alberi piantumati disposti con criterio.
È il quartiere dei giovani, dei fast food, di chi vuole divertirsi con lo skateboard e dare un’occhiata alle ultime novità in fatto di sneakers.
Ed ecco Montorgueil. Un altro tipo di mercato, racchiuso in una sola via, ben nota ai parigini per le specialità culinarie d’ogni genere.
È qui che mademoiselle viene a fare la spesa due o tre volte la settimana. Soltanto l’impegno preso la fa proseguire lungo la strada verso Montmartre, con la promessa che si fermerà al ritorno.
La collina non è poi lontana. Non la vede ancora, nascosta dai comignoli delle case.
Il nome della via è un riferimento. Françoise ha già imboccato il Faubourg e non le resta che proseguire dritto verso la strada che procede ora in leggera pendenza. È solo un assaggio di ciò che la attenderà più tardi.
Mademoiselle si è preparata. Come si addice a chi non vuole rinunciare allo stile, ha scelto un paio di stivali dal tacco basso, la suola rivestita in gomma. La scelta paga. Françoise esce dal Faubourg per imboccare le strade sempre più strette che conducono a Montmartre, i sanpietrini prendono il posto dell’asfalto.
Françoise conosce a memoria le svolte e i ritrovi. Non nomi bensì punti di riferimento, odori e colori.
È arrivata nel cuore di Montmartre.
Ci sono troppe persone per poter rimanere in sella. Scende e apre la borsa dalla quale pesca il taccuino. Sull’ultima pagina legge l’indirizzo: Rue du Mont Cenis.
Lo richiude e riprende il cammino, conducendo la bici a mano.
Ci sono molti turisti nonostante il momento non sia dei migliori. Non se ne vedono molti con la valigia in mano, in compenso hanno le cartine e reggono gli smartphone come un’ancora di salvezza.
Sono in cerca di alberghi, posti da visitare, magari adocchiati su qualche guida la settimana prima della partenza.
Si riconoscono sempre i viaggiatori, sono i primi a mettersi in coda, diligenti, disposti ad attendere ore pur di vedere un monumento.
Non è quello il caso, per fortuna.
Le pietre annerite del Sacro Cuore guardano Parigi dall’alto della loro posizione. A loro volta osservate da pochi. Gli sguardi sono tutti per la cupola centrale. Solo i più audaci sono interessati ai particolari. Sono, costoro, studenti d’arte e architettura. In quanto ai pittori conoscono le forme a memoria e non perdono occasione di esibire le tele a olio e gli acquerelli in place du Tertre, la piazza dei ritratti, il cuore di Montmartre.
Françoise arriva così a quella Rue du Mont Cenis, piena di ristoranti, negozi di chincaglierie e souvenir.
All’angolo con una piazza Mademoiselle nota la galleria di un pittore, la cui insegna è dipinta di rosso e oro. Alcune tele sono esposte sulle pareti, altre sui cavalletti in strada, altre ancora giacciono abbandonate per terra, una sopra l’altra.
Françoise crede d’aver trovato il posto di cui le ha parlato Madame Lestrade. Sposta così l’attenzione dal negozio alla casa che lo ospita. Ecco il palazzo intonacato di bianco in stile anni trenta e un grosso cancello a tutta altezza. Non è possibile vedere cosa c’è oltre.
C’è qualche citofono. Mademoiselle non ha bisogno di suonare poiché ha già messo mano sul pomolo dell’ingresso per scoprire che è aperto.
Entra dunque nel cortile lastricato che intercorre tra due case. È un po’ spoglio a dir la verità, l’impressione non è delle migliori. Del resto il quartiere non è noto per l’eleganza, bensì richiama il passato della vita bohemienne, ricca e trasandata.
C’è una porticina a sinistra oltre la quale non è dato vedere.
Mademoiselle prosegue dritta per il passatoio e la scelta la ricompensa poiché, addentrandosi nel palazzo in perfetta solitudine, il corridoio si allarga e rivela uno spiazzo.
Ecco il cortile vero e proprio, quello su cui affacciano le altre abitazioni, coi loro balconi alla francese colmi di fioriere, e i panni stesi lasciati penzolare all’aria.
Non piove, bisogna approfittarne.
Mademoiselle sorride alla vista della quotidianità, quasi vede la vita di quelle persone comuni sempre affacendate e degli anziani che passano i loro ultimi anni nel quartiere in cui sono cresciuti e invecchiati.
Proprio uno di loro si affaccia dalla finestra e osserva quella signorina mai vista prima d’allora, ben vestita e con la bicicletta rossa al seguito. La rastrelliera per le bici ha qualche posto libero, ma Françoise è troppo educata per usare qualcosa in qualità di ospite. Sentendosi osservata solleva lo sguardo e nota il viso raggrinzito di una donna dai capelli bianchi.
“Buongiorno.”
“Buongiorno a lei, posso aiutarla?”
“Forse sì.”, risponde mademoiselle. È un aiuto insperato aver trovato qualcuno che con buona probabilità c’era ai tempi di Pauline Lestrade e forse l’ha anche conosciuta di persona.
Quando l’anziana la sente nominare l’espressione affaticata si scioglie in un sorriso, la bocca si allarga, gli occhi si restringono. La ricorda ancora madame Lestrade. Per molti anni il suo laboratorio d’artigianato ha rallegrato gli abitanti del caseggiato e del quartiere.
Non era un posto per turisti, quello; la clientela l’aveva tra i parigini che vi si recavano ogni qualvolta volessero comprare un oggetto di qualità, realizzato da mani esperte.
“Era una donna gentile madame Lestrade, annotava sempre i compleanni dei bambini e gli preparava dei giochi per l’occasione. Quant’erano felici quei bimbi allora. Oggi sono diventati grandi e la ricordano ancora. Il volto è sbiadito, ma il ricordo delle buone maniere è rimasto.”
Oggi, al posto del vecchio laboratorio c’è l’atelier di un artista. L’anziana lo indica con l’indice ossuto.
“È proprio lì davanti, dopo la rastrelliera.”
Françoise non vi aveva fatto caso e ora si avvicina.
Sono due vetrine colme di polvere. Una porta in legno al centro ne delimita l’ingresso. È chiusa e sgangherata. Meriterebbe una passata di vernice. Un tempo doveva essere stata rossa, ora il legno vivo vince sul colore.
Da Renaud, recita l’insegna. Un cartello in latta la cui scritta è dipinta in oro.
Non potendo entrarvi Mademoiselle da una sbirciata da fuori. L’atelier non è tenuto nel migliore dei modi.
Tele ovunque, per terra e su di un tavolaccio, disegni preparatori, acquerelli, colori a olio mescolati e amalgamati a formare tonalità rare, quelle di cui necessita l’artista.
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Lui non c’è. È uscito lasciando ogni cosa in sospeso. Tuttavia in quel disordine Françoise riconosce una disposizione delle cose.
Guarda meglio ed ecco pastelli, acquerelli, colori ad olio extra fine, acqua ragia e ampolline, spugne tonde e porose, un quaderno per gli schizzi con la carta carbone, uno straccetto per asciugare, e i pennelli, un’infinità di pennelli dal più fine al più spesso.
Quelle tele messe alla rinfusa mostrano paesaggi di campagna e di città, scene di vita quotidiana di ieri e di oggi, e ritratti. L’artista è esperto nelle tecniche della pittura ad olio e dell’acquerello, per i ritratti veloci non disdegna il carboncino.
Infine in un angolo, non distante dal vetro cui è affacciata mademoiselle, un cavalletto il cui legno tarlato rende difficile l’appoggio ospita una tela raffigurante un vecchio comodino sul quale giace un abatjour. È una di quelle lampade di una volta realizzata artigianalmente.
Il legno in noce, la catenella in ottone, la cupola color crema rivestita di farfalle.
Mademoiselle Morant riconosce la stessa lampada di Madame Lestrade, dipinta nel laboratorio che fu un tempo suo.
Scatta una foto poi ripone il telefono e prende il taccuino dove annota ogni cosa, raccontandola proprio come se stesse scrivendo un romanzo.
È la storia di Pauline Lestrade.
Ogni oggetto fa parte di una storia. Mademoiselle scrive con gioia, credendo d’aver trovato, in quel quadro scoperto quasi per caso, un indizio importante.
Françoise chiama madame Lestrade e, senza anticiparle nulla, chiede di vederla quella sera stessa.
Madame acconsente con gioia e con lo stesso sentimento Françoise si allontana dall’atelier, salutando con un cenno l’anziana signora, un tempo amica di Pauline Lestrade.
Guarda l’orologio e tira un sospiro di sollievo, c’è ancora tempo per le compere in Montorgueil.
Françoise si presenta puntuale a casa di madame. Durante il tragitto ha pensato se raccontarle o meno del quadro che ha visto presso l’atelier. Infine ha preso una decisione: sarà onesta con Madame che si è rivolta a lei nel momento del bisogno per raccontare qualcosa cui nessuno avrebbe creduto.
E così, accomodatasi sulla poltrona in velluto che madame le ha offerto, mademoiselle racconta ogni cosa, inclusi i suoi pensieri.
“Tutto suggerisce un nesso tra la scomparsa di sua sorella Pauline, l’abat-jour e il quadro.”
“Quindi continuerò a passare le mie notti insonni perché mia sorella sta cercando di comunicare con me?”
“No, madame. Il ricordo di sua sorella in qualche modo la richiama ai tempi andati, quando eravate entrambe giovani e nel fiore della vita.”
“Oh sì, eravamo molto giovani e senza pensieri. In quegli anni Richard mi corteggiava e… oh, la mia vita è degna della trama di una soap opera, e non voglio star qui a tediarla.”
“A puntate di venti minuti di cui quattro di pubblicità posso anche sopportarlo.”, risponde Françoise suscitando una risata di gusto in madame.
“Sono qui perché credo di avere la soluzione.”
“Sono tutt’orecchie.”
“Questa sera resterò con lei fin oltre la mezzanotte. Proprio come l’altra sera assisteremo al canto dell’abat-jour che, mi par di capire, non le è più gradito.”
“Assolutamente.”
“Lo ascolteremo insieme e poi… risponderemo.”
“Risponderemo?”
“Risponderà lei, e io sarò al suo fianco.”
“E come si risponde a un canto?”
“Con un altro canto.”
Madame Lestrade rimane interdetta. Certo, non ha mai pensato a una soluzione del genere ma, riflettendoci a poco a poco, le parole di mademoiselle acquisiscono un senso.
“E cosa devo cantare?”
“Quello che vuole.”
“Io voglio dormire!”
“Ebbene, glielo dica.”
Madame guarda il cucù. Mancano ormai pochi minuti a mezzanotte.
“Oh, ma io non ho mai cantato…”
“Questo è un gran peccato perché ha una bella voce.”
“Davvero, cara?”, domanda madame speranzosa.
“Assolutamente, una voce decisa e potente. Mi stupisca. Sono qui per lei e non la lascerò sola.”
A quelle parole madame Lestrade acquisisce coraggio e si incammina verso la camera da letto.
Proprio nel momento in cui si accomoda sul baldacchino, il cucù emette i dodici rintocchi.
È mezzanotte.
I rintocchi si concludono nel silenzio.
Uno, due, tre, la lampada prende vita e comincia il canto:
Oh oh oh, di notti incantate
Oh oh oh, quante risate
Te le ricordi ancoraaaa
Non è passata neanche mezz’ora!
Oh oh oh, di notti incantate
Oh oh oh, d’inverno le nevicate
Te le ricordi ancoraaaa
Le avevamo tanto sognate!
Madame Lestrade ode la voce e cerca di domare le emozioni. Deve restare tranquilla, deve restare sul pezzo. Pertanto, nei pochi secondi di silenzio che seguono, madame Lestrade chiude gli occhi e, ingaggiando la stessa melodia, intona la risposta, sicura e impetuosa come se ci fosse il maestro Muti a dirigerla:
Oh oh oh, di te mi ricordo
Oh oh oh, e non demordo
Ti prego lasciami dormiiiir
Che è passata la mezzanotte!
Oh oh oh, di notti incantate
Oh oh oh, le abbiamo a lungo sognate
Ti prego lasciami dormiirrr
Non scorderò le nostre birichinate
E presa da un moto impetuoso madame Lestrade, con eccezionale vigore e memoria, ripete le strofe per ben tre volte. Quando infine si ferma, si volta verso l’abat-jour spenta. Passano trenta secondi, poi un minuto, poi due.
Solo allora la lampada si riaccende e con voce fioca canta:
Oh oh oh, sorella hai ragione
È il tempo di lasciarci
Meriti di dormir queste notti incantate
Solo, non dimenticar le nostre risate
“Non le dimenticherò, e ci ritroveremo insieme in notti incantate.”, risponde madame Lestrade con le lacrime agli occhi.
A quelle parole l’abat-jour si spegne.
Il suo canto si è concluso per sempre.
Madame abbraccia mademoiselle Morant.
Ora può tornare a dormire sonni tranquilli.
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