Benvenuti a Parigi!
Aarf, aarf, giù per le scale dell’hotel.
Non mi piacciono gli ascensori. Mi danno un senso di chiuso e, se mi scappa una puzzetta, la lascio andare, mica la trattengo come fate voi bipedi spelacchiati.
Quel che pensavo fosse un’attività tanto innocente e naturale, nonché siberiana, si trasforma in un’imprevisto da nascondere al naso della signora del terzo piano che, inconsapevole, ha chiamato l’ascensore e non sa che, quando le porte si apriranno, troverà due Siberian Husky con la lingua penzoloni in attesa di arrivare al piano terra.
Ma ciò non le impedirà di salire, anzi. Innamoratasi all’istante del mio bel testone, entrerà con un sorriso e, assalita dall’odore di gas naturale esploso dal mio deretano, vorrà scappar via proprio nel momento in cui le porte si richiuderanno inesorabilmente, condannandola a dodici, interminabili, secondi di penitenza.
È accaduto con la signora del terzo piano, ma sarebbe potuto accadere anche col direttore dell’hotel. In ogni caso, dopo di allora papozzo non ha più voluto saperne. Sa che preferisco le scale e mi accontenta. Così, a ogni uscita, chiude la porta della stanza e mi conduce giù per i gradini, seguito dalla mia mammozzona glabra, e Alaska, mia compagna di vita, siberiana come me, di due anni più grande.
Cinque anni son passati da quando mamma Iris non seppe resistere al desiderio di prendere un secondo Husky e, da allora, eccomi qua.
“Non che ne avessi bisogno, eh? Stavo benissimo anche da sola.”, sostiene Alaska con sussiego.
Sarà, ma intanto eccomi qua. Un siberiano maschio alfa. E una siberiana femmina alfa. Una coppia fenomenale.
“Se lo dice lui…”, commenta Alaska.
Le scale scendono in senso antiorario, e mi fiondo giù, piano dopo piano. Papozzone ha preso la stanza al quinto, sperando in un affaccio panoramico, ma si è dovuto accontentare del cortile interno perché la vista sulla Senna costa il doppio, eheh!
“Cosa ridi, scemo? In realtà ci ha visto giusto, perché è da qualche giorno che un manipolo di bipedi glabri sta trivellando da mattino a sera sul marciapiede all’ingresso. Proprio grazie alla vista sull’interno possiamo dormire beatamente e sognare tanti lupini.”, puntualizza Alaska.
Brava Alaskì, intanto stammi dietro che sto a corre come un disperato perché mi scappa… Sono uscito tre ore fa, ma l’aria di Parigi… “
“Parigio!”, corregge Alaska.
“No Alaskì, si dice Parigi, o, meglio, Paris!”
“Vai vai, ti vengo dietro. Scappa pure a me.”
E una rampa e due… e sempre giù a sinistra in un circolo infinito. Siamo al terzo piano, e poi al secondo, ecco il primo, piano terra, ma non me ne accorgo! E via altri cinque gradini verso il seminterrato e…
“Yukon, dove vai?”
La voce di papozzo mi richiama alla realtà e al buon senso.
Non per niente è il mio spirito guida, il capo branco, la bussola che ci orienta in mezzo alla nebbia che non c’è. Tutto, insomma.
Ritrovo il me stesso smarrito e torno sui miei passi, anzi sulle mie zampe, e imbocco il corridoio in direzione della hall.
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Aarf, aarf!
Forse questa volta sarebbe stato meglio prendere l’ascensore.
L’incubo non è finito. Nella hall ci sono una dozzina di bipedi glabri, accompagnati da grossi scatoloni. Ah, sono valigie. Passiamo veloci nella speranza di non essere notati. Solitamente le teste cominciano a voltarsi quando siamo nel bel mezzo della sala, ma questa volta no. Questa volta un ragazzino annoiato si volta e al grido di “husky, husky!”, comincia a inseguirci con le mani tese come un sonnambulo. Oddio, lassame ‘nnà! Devo fare roba grossa!
Papozzone accelera il passo e mamozzona dietro, con Alaska, dribbla il giovane bipede con finta e un doppio passo da far venire giù lo stadio e restaurare d’un sol colpo tutta Notre Dame.
“Notra Dama! Quante volte te lo devo dire che si chiama Notra Dama?!?”
“Sì, Alaskì, in un altro momento.”
Il ragazzino non si da per vinto e continua a seguirci , cercando di arraffare le nostre code. L’adulto glabro gli dice di lasciarci andare.
Aarf, aarf. Mancano pochi metri alla porta scorrevole.
Bambini coi game boy e genitori con gli smartphone in attesa della stanza. Bipedi seduti, bipedi in piedi. Bipedi con gli spazzoloni, bipedi alti come cocker spaniel, bipedi dappertutto. Teste che si voltano, mani che si allungano, sorrisi e sguardi sorpresi.
Aarf, aarf. La porta scorrevole. Il mio nasone incontra la fotocellula. Apriiitiiii. E… swoosh! La porta si apre, una ventata d’aria calda mi accoglie nella Parigi assolata di agosto.
Asfalto sotto i miei cuscinetti.
Ici c’est Yukon!
“Dove andiamo? Dove stiamo andando?”, domanda Alaskina, da vera lupa tutta d’un pezzo.
Ci sono trentaquattro gradi e l’asfalto scotta sotto le zampe del lup. Scotta e vibra. Trivelle in Quai Des Grands Augustins.
L’ho ululato bene? Scriverlo non posso perché non ho i pollici opponibili.
Siamo sul lungo Senna. Un monopattino guidato da un turista con dietro la fidanzatina, sfreccia fermandosi a pochi centimetri dalla mia coda. Mi giro e gli faccio i denti.
Qui, sul quai, ho visto il primo ratto della vacanza. Izzo, il mio papà glabro, fautore di tutte le mie fortune e disgrazie, ha prenotato dodici giorni e sono molto contenta. Parigio mi piace.
Izzo, diminutivo di cavallerizzo - un giorno vi racconterò perché lo chiamo così -, cammina avanti con Yukon, io tengo dietro con Puti, per gli altri Edith, la bipede glabra che da sette anni ormai si prende cura di me e dello scemo. Mi da da mangiare le crocchette al pesce, le mie preferite. Perché le altre non le digerisco, neh! E poi mi fanno schifo. Invece queste sanno proprio di pesce. Non so dove le prenda, ma so come si chiamano… Ori-cien. O qualcosa del genere. Non riesco a parlare come voi bipedi glabri e quindi dovrete farmi passare qualche errore di ortografia… ah, ma tanto sta scrivendo Puti, per la questione dei pollici opponibili, neh. Oltre a darmi da mangiare, mi da anche da bere, e mi sopporta quando chiedo di dissetarmi dal bidet… che qui non c’è. E poi mi massaggia la schiena dopo una lunga passeggiata.
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Tocca invece a me sopportarla quando, durante i miei momenti di contemplazione dinanzi a uno specchio, mi risveglia dicendo “gatto”, al che comincio a cercar felini ovunque senza trovarne. Li ho sempre considerati come prede facili al lup ma, di fatto, non sono mai riuscita a prenderne uno. Hanno l’anca girevole e una molla nel didietro che li fa correre veloci. Ma parte della colpa, o del merito che salva gli spaghetti - ops, gatti - dalle mie grinfie, risiede in Puti che tiene ben saldo il guinzaglio. Ultimamente ho avuto qualche calo di attenzione durante la consueta caccia. Con mia gran vergogna, meme ha dovuto indicarmi il posizionamento del gatto perché non riuscivo a vederlo. Non riesco a veder bene attraverso le grate e questo mi fa risentire parecchio. Il passare degli anni ha affievolito i miei istinti e ciò che prima cercavo di prendere, ora mi limito a osservare, sempre pronta a cogliere l’occasione, eh eh.
Aarf, aarf, che caldo! Siamo sempre sul quai dove almeno i passanti sembrano darci tregua indaffarati come sono a cacciare il naso nelle cartine coi monumenti in 3D. Ma, per San Bernardo, anziché guardare la carta guardati intorno, no? I monumenti sono grossi così!
A proposito, San Bernardo è il patrono di tutti i cani.
Lo preghiamo ogni volta che dobbiamo andare dal veterinario a farci pungere il didietro. E quella è la cosa più simpatica che possa accaderci, vedete un po’ voi.
Continuiamo a passeggiare senza una meta.
Izzo parla con Puti, ma non si capisce cosa stiano dicendo. Non si capisce una ciribiciaccola, ma tant’è.
Fuori da un bistrot due giovani maschi bipedi e glabri ci guardano sorridenti mentre sorseggiano il caffè. Fanno per chinarsi nell’atto di accarezzarmi. Puti si avvede del caffè che sta per rovesciarsi, caldo e zuccheroso, sulla mia schiena: mamma santissima, sacccrilecio rovinare così il pelo del lup!
“Occhio al café!”, dice Puti, indicando la tazzina. Puti ha parlato in italiano. Sa anche il francese, ma quando la circostanza richiede una reazione naturale le parole escono in lingua madre. Un po’ come quando dice… beh insomma.
I due capiscono al volo e si ritraggono per tempo.
“Ah, le café!”, esclamano ridendo.
Il caffè è salvo e anche il mio pelo. Che poi è quel che conta di più. Guardo i due con sussiego - so di essere una bella femmina - e, ancheggiando, continuo per la mia strada.
Papozzo ride: “Occhio al caffè è bellissimo!”, dice.
Mi stanno simpatici i francesi. Primo perché di solito tengono i gatti nelle loro case e non li lasciano a vagar liberi per le vie dove possono incontrare il lup. Secondo perché ci fanno un sacco di complimenti.
Arriviamo, infine, in una piazza dove un bipede con chitarra e microfono suona e canta a squarciagola musica latino americana. Se è lo stesso di ieri gli faccio i bisogni nel cappello che tiene in terra, neh? Ma no, sto scherzando! Ora la mia attenzione è catturata da un piccione. Anzi, no. Ce n’è più d’uno. Una dozzina di volatili a corto raggio se la gigioneggiano abbarbicati sui bordi della fontana decorata con uomini e donne in marmo. Stanno immobili. Perché?
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“Sono statue, Alaska!”, spiega Puti che sa tutto.
“Ah, poverine! Sono morte!”, le ululo di rimando.
“No, Alaska. Non sono mai state vive. Sono opera dei grandi maestri scultori.”
Bravi maestri che avete scolpito dei bellissimi putti per puti.
E anche la fontana non mi dispiace. Vorrei tuffarmici dentro per rinfrescarmi e poi ci sono i piccioni, ottimo spuntino. Ma non lo faccio perché è vietato, è pieno così di turisti con i piedi a mollo, e ogni volta che mi metto sulle due zampe mi scappa una puzzetta.
Raggiungiamo Izzo, fermo al semaforo.
Siamo in Place Saint Michel e manca poco a Notra Dama.
Il semaforo è rosso, nessuno si muove. Le auto e gli scooter sfilano davanti a noi. All’improvviso, dall’altra parte, un uomo vestito di tutto punto raggiunge il ciglio della strada. Mette un piede sulla carreggiata e attraversa il boulevard correndo. Il bipede arriva a metà, si ferma. Vuol morire. Invece no. È su un’isola spartitraffico. Poi, all’improvviso, riprende la corsa, si avvicina al marciapiede, vi inciampa e… “P****in!”, esclama.
Mi si drizzano le orecchie e lo guardo in obliquo. Ho sentito bene? Ho sentito benissimo!
Il genio dalla cui bocca è uscito quel meraviglioso vocabolo è proprio a due passi da noi.
Mi avvicino, colta da un moto di istantanea amicizia. Il bipede si rialza e, vedendomi, sorride.
“Trés beau chien!”, dice, accarezzandomi. Eh sì, so di esser bella. Lo riempio di bacini e ululo. Ride. E ne ha ben donde.
Non può sapere che il mio ululato è denso di significato. “Sei un grande! Hai appena detto una parolaccia di fronte a Notra Dama!”.
Poi lo lascio al suo felice destino e torno seria.
Scatta il verde e attraversiamo.
Proseguiamo ancora fino alla Shakespeare and Company, la libreria preferita di meme. Come al solito c’è coda.Mi volto a guardar meme. Mi ci gioco tre gatti che non mi sparo quella coda per entrare.
“Tranquilla, Alaska. Non siamo qui per la libreria.”
Ah bene. Del resto non ci sarei mai entrata perché lì ospitano un gatto. Eh eh.
Altro semaforo. Scatta il verde. Arriviamo al ponte. Siamo sull’isola di Notra Dama.
Turisti dappertutto. Cominciano i dribbling tra bipedi di ogni nazionalità. Lineamenti, colori e costumi d’ogni genere si fondono nel grande inventario del bipede mondiale. Calzano scarpe d’ogni genere e si muovono come birilli. Puti mi tranquillizza, muove il guinzaglio con leggerezza e mi guida con agilità e sapienza tra quel miscuglio di chiome e culture. Sa perfettamente che se qualcuno mi schiaccia una zampa è la fine.
È già accaduto in passato. Allora partì una puzzetta clamorosa, che fece voltare la testa di tutti i presenti e scoperchiò le tende dei café. Eravamo proprio qui in piazza davanti a Notra Dama quand’era ancora integra. I bipedi si erano guardati tra loro cercando il colpevole, non immaginandosi che fossi proprio io.
E allora vai di dribbling e doppio passo, finta e controfinta. Ed ecco la giapponese col tubo caleidoscopico che sembra quello del dentista, ma serve per fare i selfie.
I selfie! All’improvviso un pensiero m’assale. Puti! Non dirmi che siamo qui, di fronte a Notra Dama incellofanata, per fare i selfie?! Ma non c’è tempo per pensare perché la folla si compatta.
Una bipede alta come un pastore tedesco, scusate ma non conosco altri metodi di misura, spara le bolle. Io ci vado di naso e le faccio scoppiare. Lei ride. Io no.
“Husky, husky!”
Mani che si allungano e mi toccano. Il vento soffia, ma non lo sento. Guardo Puti. Ancora mani che mi stropicciano.
Ho caldo. Lei capisce e fa un cenno a Izzo. Allunghiamo il passo in maniera decisa e raggiungiamo un’isola di pace. Pochi metri di asfalto libero per fare qualche foto felice di fronte a Notra Dama incellofanata.
E poi via, verso il ponte. Ci arriviamo solo per scoprire che è chiuso.
San Bernardo!
Torniamo da dove siamo venuti e dribbliamo la folla assiepata al semaforo per scendere lungo la Senna dove le acque scorrono placide e l’imbarcadero ospita il battello carico di turisti.
Ne salgono a decine, forse a centinaia.
Troviamo un posto all’ombra e vi restiamo. Puti ci da da bere.
Il battello parte lasciando dietro un’onda che via via si dissolve. Finalmente in pace. Soli con i nostri bipedi glabri. Foto felici e le guglie di Notra Dama a farci compagnia. Si vedono, basta guardare un po’ sù. È incartata, incellofanata, inscatolata, ma sempre meravigliosa. Meme sapeva che volevo vederla. È dall’inizio del viaggio che pensavo a Notra Dama.
Il tempo scorre sereno. Yukon si avvicina e mi riempie di baci. Aarf, aarf.
È proprio una bella giornata.
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